L’altra partita
I ragazzi del biscottificio sono schierati davanti al bancone del diversamente bar di Frolla, perché Jacopo e Gian-Luca li avevano informati che un personaggio famoso sarebbe venuto da lontano a trovarli e sono tutti lì, in trepidante attesa.
Ecco aprirsi la porta ed entrare Marco Materazzi, avvolto da applausi, flash e risate! Non crediate però che sia stata un’accoglienza formale o timida, infatti, i ragazzi, nell’ordine: gli hanno chiesto come si chiamava, se voleva comprare i biscotti, se poteva regalare uno stipendio di quando giocava a calcio e poi ovviamente tutti hanno voluto far sapere la propria fede calcistica.
Tutti tranne Marco N. che, oltre ad essere omonimo dell’ospite, è un interista sfegatato e appena ha visto entrare uno dei suoi idoli, gli è andato incontro in una sorte di estasi mistica e non è più riuscito a proferire parola per un bel pezzo.
Dobbiamo però ammettere che siamo tutti eccitati, lo stesso Danilo Paura (quello che fa le magliette, come lo ha ribattezzato simpaticamente sempre il nostro Marco N.), che è l’artefice di questo magico incontro, lascia trasparire una bella e sana emozione, quelle che ti arrivano dritte al cuore, quando capisci che la persona che hai di fronte è vera e non sta recitando una parte per qualche scopo, ma semplicemente perché ci crede veramente.
Poi ovviamente arriva il momento delle foto di rito e anch’io mi lascio trasportare da questo piacevole vento di brio e dopo avergli regalato il mio libro “Frolla biografia di un sogno”, molto generosamente Marco mi concede un po’ del suo tempo per un’intervista davvero speciale.
Ciao Marco, innanzitutto grazie infinite per questa opportunità. Non capita tutti i giorni di poter intervistare un campione del mondo! Come prima cosa ti chiedo: cosa diresti ad un bambino che sogna di diventare calciatore?
Di continuare a sognare, innanzitutto perché i sogni a volte si avverano e poi perché per poter vivere con passione, bisogna prima sognare. Un sogno vero, senza secondi fini, anche se purtroppo ultimamente tanti genitori si intromettono, pensando che con i figli devono svoltare la propria vita, distruggendo però, così, un sogno che era puro.
E, appunto, al padre di un giovane calciatore cosa consiglieresti?
Mi viene da rispondere in maniera un po’ cruda, tirando in ballo un mio vecchio allenatore che diceva sempre “vorrei allenare una squadra di orfani”, che è bruttissima come affermazione, però rende l’idea.
I genitori spesso trasmettono aspettative e i figli, a volte, si stancano per le troppe pressioni che sentono e questo sicuramente non fa bene ad un ragazzo.
Quando un ragazzo cresce bello, sano e vive col piacere di andarsi a divertire con un pallone è una cosa fantastica, quando invece diventa un lavoro già a 7 anni è la cosa peggiore che si possa fare ad un figlio; questo è il mio modesto parere, poi ovviamente ognuno è libero di fare quello che vuole.
Si, ma non con le regole e i presupposti che ci sono oggi, soprattutto in Italia. Perché hai delle responsabilità grandi, ma talvolta non ci si può esprimere come vorresti e dovresti; quindi la colpa è la tua, ma magari qualcuno si è intromesso nelle decisioni. Visto che sono fatto in una maniera particolare, toglierei immediatamente il disturbo o attaccherei al muro quelli che impongono. Quindi evito. Non ci starei a queste condizioni.
Chi è stato l’allenatore che ti ha insegnato più di tutti, sia dal lato sportivo che umano?
Dico sempre che tutti gli allenatori mi hanno insegnato qualcosa, chi più a livello umano e chi a livello tecnico, sia chi mi ha fatto giocare che, soprattutto, chi non mi ha fatto giocare. Reputo infatti che in una squadra le persone più importanti sono quelle che giocano di meno, perché poi quando hai bisogno di loro ci devono essere, devono farsi trovare pronte.
Quindi ringrazio soprattutto quelli che non mi hanno fatto giocare o che mi hanno trattato male, perché mi hanno dato lo spunto, qualora facessi l’allenatore, per non fare gli stessi errori che, secondo me, hanno fatto loro con me.
Ti dico io allora un nome, Mourinho. Ho visto il video di un vostro abbraccio, così intenso che sembra molto più di un semplice abbraccio tra un giocatore e un allenatore, eravate addirittura in lacrime.
Eh sì, avevamo vissuto due anni incredibili e io con lui ho praticamente smesso di giocare.
È vero che con lui giocavo meno, ma ero parte di un gruppo, e quella penso sia la soddisfazione più grande per un allenatore: far sì che chiunque, soprattutto quelli che giocano di meno, si sentano parte di una squadra, veramente. In quella circostanza infatti io mi sentivo completamente parte della squadra. Tutti dicono “eh ma tu ce l’avevi con quello che è arrivato dopo”, ma non è così! Con Mou ho avuto un rapporto speciale, c’era empatia, perché sapeva quello che potevo dare anche a livello di gruppo e quella è la cosa fondamentale nel calcio, ancor prima dei risultati. Quindi per quella ragione probabilmente piangevamo in due, io sicuramente perché non volevo che se ne andasse. Fu un abbraccio emozionante.
Raccontaci uno degli ‘shampi’ più clamorosi che hai ricevuto e da chi.
Allora, da Mourinho non li ho mai avuti, perché anche quando le cose non andavano bene, lui sapeva quali corde toccare e lo faceva in maniera perfetta. Spesso io scherzavo dicendogli “a me non ne hai mai fatto uno!” ma semplicemente perché non gliene avevo mai dato modo e perché con me aveva un atteggiamento diverso, sapendo anche quello che davo all’interno del gruppo.
In linea generale, l’importante era evitare gli shampi. È capitato con Mazzone di prenderne diversi ma poi capii: quando si perdeva, il martedì successivo, dovevi girargli alla larga, senza incrociare neanche il suo sguardo, perché sennò lui chi incontrava, massacrava. Non lo faceva perché ce l’aveva in particolare con quella persona, ma solo per attirare l’attenzione. Quindi una volta capito, lo evitavi.
Qual è il luogo comune che utilizzavi (e non pensavi) quando ti intervistavano a fine partita? (tipo: l’importante è che vinca lo sport, il mister ha sempre ragione, ecc.)
Non l’ho mai fatto! Tutti quelli che mi intervistavano dicevano “ti intervistiamo, anche poche volte, perché non sei banale”, questo è il complimento più grande che possa ricevere da un giornalista. Ho sempre detto quello che pensavo, magari risultando anche antipatico o simpaticissimo (per i miei tifosi), però, veramente, ti ripeto ho sempre detto quello che pensavo.
A quante cose hai rinunciato per diventare un professionista? O semplicemente, quella che ti è costata di più?
Non posso dire che ho rinunciato, ho fatto di un gioco, della mia passione più grande, un lavoro. Così come non ho mai guardato quello che guadagnavo io o che guadagnavano i miei compagni, perché non sono né invidioso né mi interessava più di tanto, perché la mia passione era il pallone. Punto. Ero disposto a farlo contro tutto, tutti, anche a discapito di guadagnare di meno, mi dava piacere proprio andare ad allenamento, perché semplicemente mi divertivo e stavo bene.
Quali sono le responsabilità di un professionista nei confronti delle nuove generazioni? Ti senti un esempio?
Una persona è sempre un esempio, che sia un calciatore, un pasticcere, un bancario, ecc.
Io penso che ognuno di noi può dare, nel suo piccolo, un esempio per crescere le nuove generazioni.
Detto questo, spesso io sono stato descritto non sempre in modo positivo, ma poi il complimento più bello che mi fanno è “però non sei come ti dipingono”.
Penso sempre che bisognerebbe conoscere le persone prima di giudicarle, ma a me basta questo; poi chi non mi ha conosciuto, beh peggio per lui. (NdR: ridiamo insieme).
Qual è il tuo desiderio più grande per i tuoi figli?
Beh, sicuramente che si realizzino. Ho 3 figli, uno è già grande, l’altro sta studiando in America e la piccola ancora ha 15 anni, ma ha già le idee chiare, sa quello che vuole fare. Questa per me è la cosa più importante per un genitore.
Qual è la tua Paura più grande?
(NdR: breve pausa) Riallacciandomi all’attuale momento storico dove il pericolo è sempre dietro l’angolo, ti direi che, forse, il periodo che stiamo vivendo tutti quanti insieme è la mia attuale paura più grande.
Perché oggi sei qui con noi di Frolla? Cosa ti ha colpito di questa storia, avventura?
Danilo (Paura), che è un grande amico, mi ha raccontato di questa realtà e ne sono stato colpito immediatamente. Ho accettato di venire, anche se l’unico rammarico è che questa collaborazione uscirà pubblicamente, perché io solitamente preferisco non apparire.
L’ho fatto per Danilo, per i ragazzi di Frolla perché, secondo me, è necessario che venga riconosciuto loro il giusto ruolo nella società. Inoltre trovo una cosa bellissima anche chi ha messo in piedi questa struttura, sono davvero una forza e hanno tutta la mia stima. Lo faccio con il cuore e, ahimè, anche se non mi piace apparire, questa volta sono ben disposto a fare una eccezione.
Concludo con la domanda del secolo: tutti ti hanno chiesto cosa hai detto a Zidane per farti dare quella testata al mondiale 2006, ma la vera domanda è cosa tu hai detto a Maludà sul rigore dato alla Francia? …che poi non c’era!
Eh, semplicemente che non c’era! Ma l’arbitro in quella circostanza ha ritenuto opportuno darglielo; a me ha consolato un po’ il fatto di non essere stato nemmeno ammonito e già quello in parte la diceva lunga sul fatto che non ci fosse il rigore.
Poi come è andata lo sappiamo tutti e gli avrei fatto altri cento falli, se m’avessero detto che poi tanto alla fine avremmo vinto noi!!! (Ndr: ridiamo insieme di gusto)
Ringrazio e congedo Marco, che torna dai ragazzi che lo stavano aspettando per fare due imperdibili tiri a pallone. Un’occasione che non potevano perdere, del resto.
Che dire? Un regalo immenso a tutta la famiglia di Frolla che sarà sempre riconoscente per tutta questa generosità e affetto che ci ha travolti.
E poi ragazzi, Marco Materazzi, è davvero il ragazzo che non ti aspetteresti, bello (scusate, ma non ho potuto non notarlo), bravo e, veramente, non è come ce lo hanno sempre descritto gli addetti ai lavori, e se ve lo dice una juventina doc, ci potete credere!
C’è solo un tipo di successo: quello di fare della propria vita ciò che si desidera.
(Henry David Thoreau)